Nel 1962 la mia famiglia si trasferì in un palazzo nuovo nuovo, appena edificato, in via Rutelli, al numero 38.
Era una piccolissima traversa di via Marchese di Villabianca, di fronte al grande palazzone dell’Enel, tutto vetro e acciaio.
Per accedervi occorreva infilarsi in una traversina sterrata che costeggiava, sulla sinistra, dei palazzi precedentemente costruiti e che avevano la facciata su quella che, per tanto tempo, i palermitani hanno continuato a chiamare via Roma Nuova, e a destra aveva un terrapieno, alto anche due metri rispetto alla strada, di canne e sterpaglie, al quale era proibito avvicinarsi perché potevano esserci anche topi e bisce.
Quindi si apriva uno slargo, sempre di terra gialla, su cui si affacciavano il nostro palazzo e un altro gemello, mentre di fronte c’era una palazzina costruita qualche anno prima da una cooperativa di magistrati. E tutto finiva lì, perché La strada, come ora, non aveva un’uscita su via Libertà, dato che c’era il villino costruito dal nonno Giaconia, miracolosamente sopravvissuto alla furia distruttiva della nostra municipalità, comandata da Lima e Ciancimino, e fonte di orgoglio per mamma e per la zia Na che lo guardavano dai balconi. In via Rutelli, infatti, ci trasferimmo in due dalla famiglia, noi e la zia Na con lo zio Cesare, che vennero ad abitare il piano sopra al nostro.
Accanto al villino Giaconia c’erano, alla destra, Villa Cuccia, magnifica costruzione dell’ottocento che aveva, nel grande giardino, una chiesa privata e la casa delle bambole (costruita da Gaetano Pottino per i suoi sette figli), e guardata con grande invidia perché era una casetta in miniatura dove, fino ai dieci anni abbondanti, entravo senza neanche dover chinare la testa sulla porta. Aveva tre stanze, ammattonate realmente, gli infissi, con i vetri e le persiane, e dei piccoli mobili. Come riuscire a giocare “dentro” la casa di Barbie!
Sulla sinistra, invece, c’era la villa dei fantasmi, dove, i più coraggiosi, cercavano di entrare senza farsela sotto, visto che era chiusa e abbandonata da tempo (non c’era comunque modo di raggiungere via Libertà, e noi avevamo la chiave del cancelletto posteriore di casa Pottino per poter passare attraversando il giardino).
Infatti, via De Amicis aveva solo l’apertura verso via Gargallo, mentre dal lato di via D’Azeglio la strada non esisteva perché c’era ancora la splendida Villa Heloise, con un meraviglioso giardino di agrumi i cui profumi, a ogni stagione, inondavano le nostre stanze che davano sul retro, fossero dagli aranci o dalla zagara.
Appoggiata al muro di cinta della villa, c’era una baraccopoli di zingari (ai tempi il termine Rom non esisteva) che invano si era cercato di mandare via. Avevano recuperato materiale vario dalla strada e vivevano in quelle che noi pensavamo fossero umili dimore, fin quando un incendio, (non so proprio se fortuito o appiccato ad arte dai residenti esausti dalla convivenza, difficile anche allora), gliele fecero svuotare per mettere in salvo ciò che avevano dentro. Tirarono fuori mobili sontuosi (stile Caravan di Moira Orfei), e materiale elettronico di tutti i tipi: televisori, giradischi, frigoriferi, lavatrici e altro.
Per fortuna, dopo quell’episodio decisero di sloggiare e noi ci riappropriammo anche di quell’angolo di strada fino ad allora proibito.
Era un’oasi felice perché non c’erano che pochissime automobili e fin lì si avventurava solo chi, realmente, doveva arrivare ai nostri palazzi, cosicché si giocava tutti in strada, soprattutto con le biciclette.
Io avevo una Graziella bianca, di quelle pieghevoli, che papà poteva poi mettere nel portabagagli quando si partiva per andare un mese in villeggiatura in collina dalla vecchia prozia.
So di scrivere una banalità, ma erano tempi felici, fatti di poco o di niente, in cui i rapporti umani contavano; si parlava, si inventava, ci raccontavamo storie con personaggi che vivevano attraverso il nostro cervello e non per mezzo di un processore elettronico, come nei giochi di mio figlio quattordicenne.
Si stava molto fuori, senza grossi pericoli, in un quartiere che si stava evolvendo piano piano, pur mantenendo una sua dignità che, invece, le nuove strade della zona di viale Strasburgo, hanno ormai perso per sempre riducendo i palazzi a dormitori.
Peccato. Avrebbe potuto essere così bella, Palermo…