La mia mamma odiava il Natale. Oddio, non è proprio così. La mia mamma odiava il Natale e molte altre cose. Si poteva tranquillamente affermare che era un tipo “increpativo”. Cosa volesse dire esattamente non l’ho mai saputo, ma veniva usato non proprio come un complimento, per affermare che aveva una faccia di cartapesta, che non mutava mai di espressione, imperturbabile.
A me, invece, il Natale piace moltissimo. Quando ero bambina mia madre faceva l’albero con riluttanza, di malavoglia. E doveva essere un albero “chic”: un anno tutto blu e argento, un anno con le sole pigne dorate, un anno con le mele, mentre io guardavo, con invidia, l’albero del portiere. Tutto pieno di luci colorate e con le palle di vetro decorate con la porporina. Una vera leccornia per gli occhi. Così quando mi sono sposata, la prima volta, molto giovane e incosciente, avevo solo due desideri: fare l’albero come quello della portineria, per poterlo poi mettere dietro la finestra, con le luci intermittenti, e riempire il frigo di mortadella, che mamma non comprava perché aveva un odore troppo forte. Posso con tranquillità affermare che andai via da casa soprattutto per poterli realizzare. Una volta concretizzati mandai al diavolo il mio matrimonio e cominciai una serena vita da single. Ma a casa mia.
Ho scoperto che chi odia il Natale non è sereno. Uno dei primi anni del mio secondo matrimonio, quello buono, ci ritrovammo soli, sul divano, con il carrello pieno di prelibatezze e un film in cassetta: “C’è posta per te”, il massimo del romantico e dello sdolcinato, con Meg Ryan e Tom Hanks, del periodo in cui Meg Ryan era ancora una donna “normale” e non di plastica. Fu una delle più belle notti di Natale della mia vita. Lo raccontai a un’amica, infelice, con un marito che la tradiva e che lei non amava più. E mi disse: “Ma sei pazza? Non ti sei abbuttata mortalmente?” “E perché?” risposi, “che potevo volere di più dalla vita?”
Mamma non aveva ragioni per essere serena. In effetti. Papà aveva avuto un ictus a 50 anni e lei lo aveva accudito per quasi 10 anni con amore e dedizione, trovandosi sulle spalle la responsabilità di una famiglia con tre figli. E’ stata una pessima madre, increpativa, appunto. Ma una moglie favolosa. Unica. Solo per il suo amore papà ha campato così a lungo, in quelle condizioni.
Si sposarono che lei non aveva 20 anni, sesta di 8 figli in una casa piena di gente, di affetti, di senso dell’umorismo e di donne. Un amore, quello con papà, fatto anche di piccole cose, come dovrebbe essere un amore vero, profondo. Papà le telefonava, ogni mattina, appena arrivava in ufficio, per darle il buongiorno. E poi, prima di rientrare, per avvisarla di “calare la pasta”. Tempo di metterci a tavola e passavano gli zii, che abitavano al piano di sopra, e che, non avendo figli, godevano del casino della nostra famiglia. Lo zio Cesare, integerrimo magistrato antimafia (anche se a quei tempi questa etichetta non esisteva ancora) era, in privato, un gran casinista e un gaudente di prima specie. Avevano questo rito, da sempre. Passavano da noi mentre eravamo a tavola, per due chiacchiere, e, parlando parlando, lo zio Cesare rubava le patate fritte dal mio piatto.
Il Natale mi piace perché mi piace il rosso. E pensare che Santa Klaus, fino agli anni ’40, aveva una casacca verde. Fu la Coca Cola americana, per motivi di marketing, a cambiarle colore.
Ho creduto poco a Babbo Natale. Da noi non si usavano tanti infingimenti, e comunque il regalo grosso lo faceva la Befana dell’I.R.F.I.S., l’ufficio dove lavorava papà. Ogni anno dava ai figli dei dipendenti un buono da 10.000 lire. Una grossa cifra, all’epoca. Si andava in alcuni negozi convenzionati, come Russo, che vendeva profumi e balocchi in piazza Massimo, Harper, in via Ruggero Settimo, Bellanca e Amalfi, La Scaletta, negozio chic per bambini in via Stabile, ma, soprattutto, Studer. E lì potevi scegliere quello che volevi. Poi, il 6 gennaio, con una bella festa, tutti in ufficio, dove ti avrebbero consegnato il pacco con il regalo che ti eri scelta. Un anno comprai una delle prime bambole che camminava e parlava, una specie di marziano per quei tempi, ed uno degli ultimi regali fu la Pista Policar, che montai subito, sotto la scrivania di papà, suscitando la riprovazione di altri genitori perché non era un regalo da femmina. Altro che Babbo Natale.
Mi piace anche il Presepe. Lo faccio da quando è nato Carlo. Prima no. L’ho fortemente voluto quando è arrivato un bambino a casa nostra. Il Presepe è cosa da bambini. Io facevo camminare i Re Magi, con i cammelli, lentamente. Un passetto al giorno, dovevano arrivare davanti la capanna proprio la notte dell’Epifania, come “un due tre stella”. Non sempre ce la facevo a calcolare le distanze, ed anche oggi, qualche volta, ci sono giorni che devo tenerli fermi e altri che fanno due, tre passi insieme. Il mio presepe è pieno di animali. Ho comprato anche quelli da cortile: rane, conigli, tartarughe, maiali e miliardi di pecore, di tutte le dimensioni, alcune persino più grandi dei pastori. Ma mi piace così com’è, con le palme, gli abeti tutti verdi e quelli innevati. C’è pure lo specchio tondo che fa da laghetto per anatre e cigni. E, da pochi anni, ci sono pure i pupazzi che Carlo trova negli ovetti di cioccolato: due puffi blu, un paperino, una tartaruga con l’ombrellino e qualche altro che mi nasconde perché si diverte a spiare la mia faccia stupita quando lo trovo, magari, coricato nella mangiatoia con il bambinello.
Lo guardo e sono serena. Mi dà gioia, mi commuove.
Ma capisco chi odia il Natale. E mi fa una gran tenerezza perché deve essere proprio infelice.
Ma molto, molto increpativa!