25 anni. Perché si sceglie di farla finita a 25 anni? E a 30, o 50? O come Mario Monicelli, a 95?
Non c’è un perché, o almeno non è dato a noi di saperlo.
Ho lavorato, come assistente segretaria, per tanti anni, per un luminare della neuropsichiatria che aveva una sua teoria, assolutamente confermata dalle circostanze.
Ci sono diversi tipi di depressione e diversi modi di togliersi la vita. Si sta male per il lavoro perso, per la fidanzata che ti lascia o per la morte dei genitori. Sono tutti dolori che, al momento, ti sembrano insormontabili, insuperabili. E il modo in cui si cerca di farla finita ti obbliga a pensare, a elaborare. Le pillole, il gas di scarico della macchina o, addirittura, il fuoco.
Quando ti lanci da una finestra no, non ci pensi. È un raptus, velocissimo e immediato. Il mio neuropsichiatra, quando capiva che qualcuno dei suoi pazienti aveva una tendenza suicida di questo tipo, consigliava ai familiari di rendere “difficile” l’accesso alle finestre. “Mettete un chiavistello complicato da aprire, sistemate la stanza in modo da metterci un divano davanti che, eventualmente, va spostato”. E questo perché, non essendoci un fattore scatenante, potrebbe anche passare il momento del raptus.
Questo male di vivere viene da dentro, e come un tarlo, ti divora l’anima. Ce lo hai da quando sei nato. Potrebbe restare silente o esplodere per delle cause che, a occhi estranei, sono ridicoli e infinitesimali. Ma l’ultima goccia del vaso che si andava riempiendo mentre tuti ne erano all’oscuro, quando trabocca trabocca.
Conosco molte famiglie che hanno vissuto un simile lutto. E, per uno di questi, posso anche dire che i genitori, medici entrambi, si erano accorti che nel loro figlio ventiduenne, qualcosa non andava. Così si sono messi in ferie e sono stati con lui per una settimana intera. Poi, una mattina, la mamma ha messo la pasta a tavola e lo ha chiamato. “Un momento” ha risposto Salvatore, “vado a lavarmi le mani”. Ha infilato la finestra del bagno, e mentre le altre famiglie del palazzo si raccontavano com’era andata la mattinata davanti una tavola apparecchiata, lui ha provato a volare.
A volare via dai disagi, da un male sottile, infido, che ti porti dietro per un’intera vita di tormento. Solo, senza che nessuno riesca a capire il tuo sguardo lontano, malinconico, assente.
Piango stasera, con quella mamma, quel papà e quella sorella che da oggi vivranno come una colpa il non essere riusciti a fermare in tempo quel volo senza ali. E vorrei dirglielo: “Voi non potevate fare niente”, niente che non avete già tentato di fare, niente che avrebbe potuto cacciare via quel tarlo che le aveva mangiato l’anima e darle delle ali che l’avrebbero salvata.
Grazie Gera