Non è un oggetto. Ma ha fatto parte della nostra casa per quasi 20 anni. Non ricordo come arrivò nella nostra famiglia, ma un personaggio simile difficilmente si può dimenticare. Sebastiana Capotondo in realtà si faceva chiamare Anna. Era sesta o settima di nove figli. Il fratello più grande, Michele, viveva alle spalle delle innumerevoli sorelle smistandole nei vari lavori, domestici e non, accompagnandole ogni mattina con una vecchia 1100 Fiat. Venimmo a sapere, dopo molto tempo, che qualcuna di loro batteva per strada. Anna, invece, aiutava mamma nelle faccende domestiche. A mezzo servizio, come si diceva un tempo. Era una donna robusta e con i capelli tinti di biondo scuro, sempre raccolti in un tuppo, con degli occhi azzurri chiarissimi. Era sposata ma, il marito, era scappato all’”Americazuela”, si presume dall’intera famiglia Capotondo, e non si avevano sue notizie da molti anni. Cosa che rendeva Anna furiosa. Infatti, era sposata, quindi legata a qualcuno, che però non c’era. Non poteva rifarsi una vita perché il “frate Michele” la sorvegliava e viveva questa sorta di vedovanza bianca con grande rabbia. Abitavano tutti in un vecchio e decadente palazzo nobiliare nei pressi di piazza Bologni. “Ma sape, signora, abbiamo un salone dipinto tutto pieno di stermi, e me frate Michele d’estate, quando c’è caldo, si va a pigghiare u frescu in capo a torretta”. Anna lavorava a casa nostra fino alla fine del nostro pranzo, e siccome poteva andare via non appena avevamo finito, aveva l’abitudine di sparecchiarci la tavola mentre ancora mangiavamo, cosa che rendeva isterico mio padre. Quindi raccoglieva i lembi della tovaglia e tentava un improbabile trasporto delle suppellettili rimaste in un colpo solo. Questa manovra, purtroppo, non le riusciva quasi mai; e spesso rovinava a terra la formaggera, o l’insalatiera piena d’olio o altro, rompendosi e lei esclamava ridendo: “Ma oggi ste cose che hanno??? U sciddico??!?” Un giorno Anna mancò. E anche il giorno appresso e l’altro ancora. A casa loro il telefono era muto e, dopo una settimana cominciammo a preoccuparci. Allora mamma chiese allo zio Cesare, magistrato, che abitava sopra di noi, se poteva cercare di sapere qualcosa tramite la Polizia. Ci rassicurò quasi subito: “Non preoccupatevi, è in galera con tutta la famiglia. Ne avrà per tre mesi!” Cos’era successo? Michele, capofamiglia e boss del quartiere, aveva saputo che un loro vicino di casa li aveva sparlati. Quindi aveva riunito tutti e avevano deciso di punirlo. Erano andati a casa del poveretto, gli avevano buttato giù la porta e, trascinandolo fuori, lo avevano malmenato in nove mandandolo all’ospedale per parecchi giorni. Fra le imputazioni c’erano: effrazione, violazione di domicilio, rapimento, percosse e qualcos’altro che non mi ricordo… Finita questa triste vicissitudine Anna ritornò da noi, ma in una nuova veste: vestita di nero dalla testa ai piedi, e d’estate, con le calze, fa un po’ impressione, ma con i capelli sciolti e un sorriso radioso che le illuminava il volto. “Anna che è successo?” – le domandò mia madre – “Signora, finalmente u truvarono”. “Ma chi, Anna?” “Signora, me marito”. “E tu perché sei a lutto?” “È MORTO!!!” Così tutto si risolse. Un bel lutto di pochi mesi e si ricominciava a vivere. Non ricordo nemmeno perché Anna non venne più, ma so solo che, quando morì mio padre, con la cassa ancora aperta, a casa, suonò la porta, e con un velo nero di pizzo in testa e gli occhi azzurri inondati di lacrime, entrò Anna. Come l’avesse saputo non glielo domandammo nemmeno; non la vedevamo da qualche anno e restammo basiti mentre, precipitandosi sulla bara, prese le mani di papà e gliele baciò. Capimmo allora quanto ci aveva voluto bene.
Sebastiana Capotondo
- Il ciaffico
- Ho perso un maestro
Non c’è cosa della tua vita che raccontata da te non diventi interessante.
Anche la storia di Anna
Angela