Palermo, 13 aprile 2012
Le lacrime, impigliate nei miei occhi, fra le mie ciglia, non vedono l’ora di scorrere, senza barriere e senza vergogna, trattenute solo da un velo di pudore che non ha ragione di esistere. “Vieni, che ti faccio il necrologio della mia città” dice Claudia, portandomi in giro per i viali, le stradine e le piazze di una città che io ricordo viva e bellissima. Dei cani randagi ci vengono incontro combattuti, fra l’abbaio e lo scodinzolo. “Ecco, questi sono gli ambasciatori della nostra città: Pluto, il vicesindaco, e quell’altro è uno degli assessori”… Cerco affannosamente la macchina fotografica per fermare ogni istante, ogni attimo di ciò che mi colpisce in questo veloce tragitto in macchina. “Non ci si può fermare, in via XX Settembre, solo passare senza intralciare il traffico”. Allora commuto le mie foto in un filmato per cogliere ogni particolare. Ma niente di quello che vedrò è immaginabile. Niente di quello che si vede in tv rende l’idea della tragedia in tutto il suo fragore. Il mese scorso, a Palermo, c’è stata l’ultima scossa chiaramente avvertita dalla popolazione. Eravamo a cena, a casa, con la zia ed una coppia di cugini. Ad un certo punto ci siamo guardati in faccia e siamo scattati in piedi scappando verso gli architravi della casa e verso la porta d’ingresso per aprirla ed evitare di restare incastrati dentro. E infatti Claudia mi racconta che nella notte, nel cortile sul quale affacciano le palazzine del loro condominio, hanno visto persone scappare dalle finestre e sentito i rumori della gente che prendeva a calci le porte d’ingresso per uscire. Per inciso, loro sono fuori casa da quella sera ed il loro nido, ristrutturato, amato, arredato con amore, probabilmente verrà abbattuto. Quando? E chi lo sa!? La burocrazia e la mancanza di soldi da parte dell’amministrazione, che dovrebbe aiutarli a ricostruire la loro casa e la loro vita, tacciono, nella totale confusione di programmi e di intenti. Cerco di spiegare a mio figlio, anni 11 – che a Palermo, dopo la scossa, la prima della sua vita, non ha dormito per tre giorni – cosa vuol dire quello che sta vedendo. I suoi amici, Francesca e Alessandro, scherzano, giocano, parlano di tutto quello che i ragazzini di quell’età può interessarli, mentre negli occhi di Franci brilla la luce della goduria all’idea della cassata portata da Palermo che fra poco finirà nella sua pancia. Ma nulla per loro sarà più come prima. E’ cambiata la loro stanza, la loro casa, la loro strada ed il loro quartiere; sono cambiati i loro vicini ed i loro compagni di giochi. I loro punti di riferimento. La loro scuola ed i loro passatempi. Sembra si adattino i bambini… ma solo il tempo ci potrà dire se queste scosse non hanno lasciato delle crepe anche nella loro anima. Nella mia sicuramente. Andiamo a visitare via XX Settembre, dove la scossa ha fatto più danni. “Qua siamo proprio sopra la faglia di Roio. Ci sono delle placche che cozzano e fanno guai”. Adesso vediamo la targa nuova: via VI Aprile 2009. E chi se la scorda quella data. Passiamo da una piccola abitazione ad un piano, rasa al suolo. Sono visibili tutte le pareti interne della casa con il perlinato ed i termosifoni ancora attaccati a ciò che resta delle pareti. Molte anime girano intorno a questa abitazione. Ma vedo soprattutto una coppia di anziani, angosciati. La loro angoscia mi striscia di sopra lasciandomi una bruttissima sensazione. Di fronte c’è quello che resta della casa dello studente. Guardi bene e ti accorgi che manca qualcosa. Sì, un’intera ala. Infatti, in mezzo a due corpi di fabbrica ci sono delle pareti interne, bianche, con le porte di sicurezza, a spinta, intatte. Sono i pianerottoli che dividevano le varie stanze. E davanti, sulle griglie che delimitano l’area con il baratro lasciato dal vuoto, le foto, i fiori, i messaggi, le struggenti poesie di una mamma mi provocano un groppo in gola. Ed un messaggio, lasciato da una delle più attive aquilane incazzate mi spinge a fotografare ogni particolare ed a raccontare in giro quello che ho visto, per non dimenticare. E cara Patrizia Tocci, chi può strapparmi dal cuore quello che vedo? Il groppo è sempre più sul punto di sciogliersi in un pianto liberatorio. Mi trattengo. I nostri amici aquilani ci guardano e ci raccontano la storia della loro città e di quello che è successo con una dignità non rassegnata che mi sarà da esempio. Poco più in là c’è un convento. Sporge sul vuoto della valle, colorato di rosa, con una grande terrazza sulla quale troneggia, sulla balaustra, un’enorme statua della Madonna. In equilibrio ma ferma, fermissima. Intatta. Eppure guardi l’educandato femminile sul fronte, verso la strada, e ti sembra una gigante casa di Barbie. Vedi tutte le stanze, uguali, con le scrivanie allineate, gli armadi marroni, moderni e dozzinali, il bagno, con la mensola con i necessaire ancora schierati, aspettando delle studentesse che adesso sono in altri luoghi, in altre case, più ferme e più sicure.
Sull’altro marciapiede un grande vuoto, accanto ad un complesso moderno, pretenzioso, colorato e abbastanza malridotto.“Qui il mio capo aveva comprato degli appartamenti, per fare un investimento. Aveva fatto il rogito a Dicembre…” Al posto della voragine c’era invece un intero palazzo, che ora sembra solo il buco del formaggio. Ma senza il formaggio. Anche qui, un bellissimo monumento di legno che rappresenta delle ali, scolpito dai Vigili del Fuoco, presentissimi in tutta la città, ricorda altre anime che non si danno pace. Guardiamo dei palazzi che loro chiamano “Beirut”. Ed in effetti l’idea che rievocano è proprio quella del bombardamento. Nei balconi i panni sono ancora stesi come sono stati lasciati da quella fuga precipitosa, che li ha fatti scappare da casa nella notte, in pigiama, senza occhiali, senza telefonini e senza documenti. Qualche macchina giace, schiacciata, sotto quei balconi, non più recuperabile. Passiamo da Campo di Fossa, altro quartiere disastrato, ai cui piedi, in un giardino pubblico stazionano alcune decine di sacchi neri dell’immondizia. E quelli? “Sono gli effetti personali, i documenti, le foto, e tutto ciò che è stato possibile recuperare dalle macerie delle case e che potrebbe servire. Ma è lì da tre anni e sta in questo giardino, sotto il sole, il vento e le intemperie senza che alcuno lo reclami”. E immediatamente il pensiero corre a te, egoisticamente, e rifletti: cosa recuperei io, in un frangente simile? Cosa salverei? Gli oggetti di valore? I ricordi? Sicuramente gli occhiali da vista! Poi il disco rigido con tutti i miei scritti e le mie foto, il caricatore del telefonino e qualche gioiello. E i gatti? Quando c’è stata la scossa di 10 anni fa li ho messi nel trasportino e sono fuggita! Ma credo che la serenità svanisca in simili frangenti. Sì, perché il terrore ti pervade inghiottendosi anche l’ultimo barlume di razionalità. Abbiamo attraversato tutto il centro storico, a piedi, sotto una pioggerellina fitta fitta che nascondeva benissimo la sensazione di tristezza che ti dà l’abbandono. Le stradine, i palazzi puntellati, testimoni di una storia e di una bellezza che si intersecavano con la vita pulsante di una città universitaria del tempo che fu, la camionetta dei Carabinieri che fa la ronda e, finalmente, la piazza del mercato. Qui ho scoperto una delle tante iniziative di cui la tv non parla: “L’Aquila: mettiamoci una pezza!”. E’ stato chiesto, con un tam tam attraverso il web, alle donne di ogni paese, di tessere delle mattonelle di stoffa, all’uncinetto, ai ferri, colorate di colori sgargianti. Appena sono state raccolte, un comitato di aquilane le ha “montate” e collocate in giro per la città. Nella piazza principale ci hanno foderato le scale, le panchine, i lampioni e le edicole. Persino le cabine telefoniche sono rivestite di queste mattonelle colorate. Una meraviglia, e l’attenzione converge nuovamente sulla città. I colori catturano, come in una provocazione, l’interesse dei media che sembrano aver cancellato L’Aquila dai loro programmi. Quindi siamo passati da una cancellata che delimita la zona rossa dove gli abitanti che non hanno più potuto fare rientro a casa hanno appeso le loro chiavi, con un fiocchetto ed una scritta struggente: ”Queste sono le chiavi delle nostre case, appese alle transenne come le nostre speranze”. La casa. Ma ci pensate a quello che rappresenta la casa per l’italiano medio, stanziale, bamboccione, che non lascia la casa nemmeno a cinquant’anni? E quanta vita vostra c’è, dentro una casa??? Eppure i nostri amici, pur nello smarrimento, non mollano. Ed è per questo che mi sono impegnata a scrivere ciò che ho visto, ciò che ho provato. Perché più se ne parla e meno si dimentica.