A casa nostra i morti erano morti. E basta. Non portavano regali, né carbone, né giocattoli, né venivano a grattugiarti i piedi se ti eri comportato male. Semplicemente non se ne parlava.
Per questo non ho mai frequentato il cimitero. Si ricordavano le date e ogni tanto si faceva dire qualche messa, spesso cumulativa insieme ad altri zii, o nonni, nella chiesina di via del Fante, San Giuseppe, di fronte casa Ajroldi. Ma senza drammi.
Poi, dopo la morte di mamma, in un’età ormai adulta, ho dovuto sbrigare molte noie burocratiche e ho scoperto, per esempio, che la tomba della famiglia Piazza è in una parte del cimitero di Sant’Orsola, dietro la chiesa dei Vespri, che è data in concessione a una congregazione, quella dei Santi Euno e Giuliano. Questo comporta che se non sei iscritto alla Congregazione non puoi essere seppellito in quella che consideravi la tomba della tua famiglia. Solo che questo l’abbiamo appurato al momento del bisogno. Abbiamo pregato i capi di accogliere mamma per farla stare insieme a papà, abbiamo smosso prelati, politici e santi. Ma non c’è stato niente da fare, cosicché adesso riposa con zia Mimmi e zio Gaetano in quella che era la nuova tomba dei Pottino.
Ma questo mi ha costretto a frequentare questo grande giardino silenzioso per la prima volta, e girando per i viali ho avuto la prima sorpresa.
Sul piccolo cippo che è eretto al centro fra le due lapidi che delimitano la nostra sepoltura c’è una piccola faccina, scolpita in onore di un bimbo Piazza morto a nemmeno tre anni. E fin qui niente di strano poiché era la fine dell’ottocento e bastava una delle tante malattie infettive per le quali adesso tanti deficienti non vogliono vaccinare i propri figli, per farli diventare dei piccoli angioletti.
Ma la cosa per me shoccante è che la faccia del bimbo è uguale alla mia da piccola, così come a quella di mio padre e di mio figlio. Lo so che la genetica non è un’opinione…ma devo confessarvi che fa un po’ senso.
Quindi, proseguendo i miei giri fra le cappelle e i monumenti funebri, ho trovato due sculture, una delle quali dell’artista Domenico De Lisi, figlio del più famoso Benedetto ma maestro, a sua volta, di Antonio Ugo.
Raffigura un angelo, coricato su una tomba, con le braccia sopra la testa e la testa adagiata in mezzo alle ali. Un piede scivola via, stanco, spuntando sotto un drappo della veste. Sembra che stia semplicemente dormendo, con un’espressione serena sul volto. È di una bellezza indescrivibile. Resterei un’ora a guardare quell’angelo che semplicemente col suo riposo veglia la tomba e chi giace in essa.
Mentre l’altra scultura, di cui non si identifica l’autore, raffigura una donna, mollemente adagiata di traverso su un sarcofago, a protezione, ma senza alcuna aggressività o superbia, mostrando, però, il possesso di ciò che custodisce. Bella, molto bella anche questa.
E mi sa che una mattina di queste, ben lontana però dalle varie ricorrenze che popolano il cimitero di bambini vocianti e mamme volgari e chiassose, mi andrò a fare un’altra passeggiata, fra viali e cipressi, per cercare di scoprire quali altri tesori nasconde questo grande giardino silenzioso. Ma, certamente né giocattoli né carbone.
Se poi parliamo di grattugie devo ammettere che ho sempre avuto un rapporto privilegiato con le anime, che sento e che mi parlano. E nessuna si è mai mostrata così ostile da scoraggiare le mie passeggiate. In fondo, fra i vivi, c’è molto peggio.