E’ con piccoli frammenti del mio cuore tenuti stretti stretti nella mia mano che voglio comunicarVi le mie sensazioni.
Dopo un pressing degno del più innamorato dei corteggiatori la professoressa di Storia dell’Arte Maria Teresa Calcara mi ha convito a parlare con la mia famiglia per fare entrare, dal portone principale, la casa della zia Mimmi fra le bellezze poco conosciute della nostra città nel circuito di visite delle “Domeniche del Cannizzaro”, bellissima iniziativa che cerca di regalare attimi di bellezza ai nostri ragazzi e, perché no?, anche alle loro famiglie.
La villa, dopo la morte della zia che lasciò i mobili e ciò che in esso vi era contenuto a un lontano nipote da parte del marito, è VUOTA.
Ho sempre pensato a questa casa come a un “essere vivente” poiché abitato e vissuto con amore.
Ho partecipato, sin da piccola, alla vita che in essa si svolgeva perché ci ho giocato, imparato ad andare in bicicletta, partecipato alla “caccia delle uova” che le zie nascondevano nel giardino la domenica di Pasqua e che noi nipoti dovevamo ritrovare mettendole in un cestino. Ci ho festeggiato il primo compleanno di mio figlio, i quarant’anni di mio marito, le nostre mangiate di cuccìa con il gruppo facebook, ho le chiavi di tutta la casa comprese quelle del portoncino posteriore, su via Domenico Costantino, che la zia mi fece fare da un fabbro a Petralia perché qui in città nessuno sapeva da dove cominciare, l’allarme è collegato al mio telefono e so io quante volte sono corsa, anche di notte, perché suonava con il cattivo tempo…
Ho un ricordo indelebile delle gare, con mio cugino Eugenio, di discesa dello scalone di sedere con le gambe a squadra ai due lati della corsia di velluto rosso, e se chiudo gli occhi vedo i dolciumi che la zia teneva per noi nipoti, nella stanza accanto al salottino su un carrello vicino a un grande mobile di sacrestia, mentre sento, intenso, il profumo di Roger & Gallet che si spruzzava, seduta al mobile di toletta, prima di uscire.
Dopo la sua “spoliazione” non sono più riuscita a entrarvi dentro. Al contrario di tanti cugini e nipoti che l’hanno vista, invece, come un bel contenitore per feste e ricevimenti. Probabilmente, l’averla avuta dalle mani della zia, direttamente, mi ha molto inibito, e
così, quando oggi sono venuta ad aprire la casa, dopo quasi due anni, sono rimasta molto intimorita.
Spesso ho raccontato la storia di questa casa, anche per allontanare leggende di donne eroiche, sulle barricate, con la spada sguainata per proteggerla dalle mani degli speculatori. La casa fu acquistata dallo zio a un’asta giudiziaria e, durante la vendita si intrufolò il costruttore romano Caltagirone che gli soffiò, nello spazio di un cerino, uno dei lotti che faceva parte della villa. Per tanti anni la striscia di giardino che costeggia via Nunzio Morello venne chiamata “la Terra di nessuno” e la zia si limitava a tenerla pulita senza alcuna coltivazione. Caltagirone non la recintò né accennò mai a utilizzarla. Così, dopo una causa ventennale, la striscia tornò di proprietà della zia Mimmi. Poi ci fu la storia delle bombe, alla fine degli anni ’70. La famiglia Giaconia (famiglia di origine della zia) aveva dei terreni a Mistretta che stavano per essere usucapiti da mafiosi locali. Lo zio Gaetano, abile imprenditore, se ne accorse e decise di intervenire. Così prima gli ammazzarono molti capi di bestiame nelle sue proprietà vicino Bompietro, poi gli intimidirono gli impiegati che si licenziarono in blocco lasciandolo solo e poi cominciarono le bombe. Dopo le prime due ci furono dei fermi, e poi una terza. A quel punto i fermi si tramutarono in arresti definitivi e tutto cessò. Niente romanzi, quindi, ma mafia campagnola…! Anche se la zia resistette impavida a tanti perditempo che volevano affittare la villa per gli utilizzi più fantasiosi, credendo di avere a che fare con una vecchina un po’ stonata, e senza sapere che lei li faceva parlare a vuoto per poi mandarli via con un sorriso.
Ho guardato i visitatori mentre ascoltavano i racconti degli studenti sulle origini della villa, sulla sua vita e sulla sua proprietaria, ma non sono riuscita a varcare la soglia, e l’unico affaccio che ho fatto, dalla scala di servizio, è servito a farmi notare i vuoti sotto i gancetti, alle pareti, che reggevano dei piccoli acquerelli che gli zii avevano comprato a Montmartre, in un viaggio di tanti anni fa e che, non avendo alcun valore, adesso campeggeranno su qualche bancarella o in un magazzino di robivecchi, così come ho visto che il custode della villa non è stato capace nemmeno di far sopravvivere una piantina di pothus (che necessita solo di un po’ d’acqua una volta la settimana) alla quale la zia teneva molto e che circondava il ferro battuto della finestrina a mezzaluna della scala sopra il portoncino.
E l’ho vista, scendere le scale come faceva lei, con la mano piena ad agguantare il corrimano di legno lucido, levare le foglioline secche, aggiustando un rametto che camminava ribelle in un’altra direzione. Così ho capito che avevo fatto bene a non voler più entrare, in questi due anni dalla sua mancanza.